Soldati quadrati questi Alpini. Se non hanno superato, di certo arrivarono l'eccellenza dei bersaglieri. Vennero qui dalle gole di Val di Tanaro, dove l'Appennino è più aspro e foresto, ed essi v'han le loro sedi e sanno i sentieri, i varchi; sin l'orme dei lupi. Là impararono a conoscere i nomi dei Piemontesi che, di rupe in rupe, contrastarono per quattro anni il suolo della patria ai Francesi, e a quali Francesi! Ora hanno dato una corsa qui, passi da difendersi esultando; e forse hanno inteso che come si faccia a starvi, lo insegnò Rampon nel 1796.
Non v'è una pietra che segni il punto dove fu il forte del famoso combattimento. Eppure nel 1805 Napoleone decretò che qui, forse sul culmine su cui stette Rampon, fosse innalzato un monumento. E il sei fiorile dell'anno tredicesimo repubblicano, ne scriveva al general Berthier, in una lettera che anni or sono doveva essere pubblicata in Francia, dove si crede che il monumento sia stato eretto davvero, tanto che nel 1875 fu chiesto di là per via di consoli, se esistesse ancora e in quale stato; o se distrutto, in qual tempo lo fu, e in quali circostanze. Ma nessuno vide mai nulla: di monumenti questi montanari non ricordano, né hanno visto mai che i ripari di pietre formate dai Granatieri di Rampon; li hanno rispettati e li chiamano il ridotto.
Di qui si vedono i punti estremi della linea occupata dagli alleati nel 1796; e mentre il sole va sotto, si contano a certe oscurità tutte le valli che la tagliano via via. Era lunga dalla Bocchetta di Genova all'Argentiera più di cento miglia pei monti; vi campeggiavano trentamila Piemontesi e cinquantamila Austriaci; questi condotti da Beaulieu, quelli dal Colli. Intanto Buonaparte se ne veniva da Nizza lungo il mare, con ventottomila fanti, tremila cavalli, trenta cannoni e i suoi ventisei anni. Tesoro non se ne parlava; perché il Direttorio gli aveva dato una pizzicata di luigi come a uno scolaro, e ancora l'aveva incaricato di spartirseli coi vecchi generali che sarebbero stati suoi luogotenenti. I soldati erano mezzo nudi, pasciuti appena da reggersi ritti, mandati alla guerra da un governo che, per bocca del giovane generale, aveva dichiarato di non poter nulla per loro. Ma il generale aveva aggiunto di suo, che di qua dai monti v'erano le più belle campagne d'Europa, città ricche, abbondanza. Stanchi di assaettarsi a morire per i greppi della Provenza, quei soldati venivano lieti e cantando alla terra promessa.
Cose che sanno tutti, ma che io intesi da uno che conobbi vecchissimo, e nel 1796 aveva già più di vent'anni. I Francesi lo avevano colto vicino al Santuario della Misericordia di Savona, mentre se ne tornava a casa sua nei boschi. Invitato a servir loro di guida, non s'era fatto pregare. Diceva che erano stracciati e magri da far pietà, ma non feroci come li gridava la gente. Egli aveva parlato con Buonaparte e lo menzionava toccandosi il berretto; ma, ricordo vivissimo in cui si compiaceva, gli era rimasto il cavallino bianco montato da quel giovane magro, pallido, di capelli lunghi, i cui occhi tiravano come due pistole. «Pareva che quel cavallino avesse le ali, tanto correva veloce, qua, là, in cento punti: e lo seguiva un nugolo di cavalieri tutto oro e pennacchi, i diavoli e il vento». Così diceva quel vecchio tenendo gli occhi fissi come in una lontananza ideale. Forse si moveva laggiù la sua cara antica visione.
Buonaparte aveva bisogno che la linea occupata dagli alleati rimanesse lunga qual era, per trovarla sottile nel punto da lui scelto a sfondarla; quel punto che egli aveva scelto attentamente due anni prima, nei due giorni che il corpo di Dumerbion, con lui per colonnello d'artiglieria, era stato in Dego, a riposare dal combattimento del Colletto, a far bottino della roba lasciata ivi dagli Austriaci di Wallis, fuggiti senza sconfitta. Curioso luogo di storia militare che meriterebbe d'essere spiegato.
Che manata deve essere stata quella che si diede in fronte Beaulieu, all'alba dell'undici aprile 1796, quando, per le gole dell'Appennino gli giunse verso Genova il rombo delle cannonate da questi monti! Ed egli, rinforzata la Bocchetta e rimontata la Valle dell'Olba con undici battaglioni, aveva creduto di poter precipitare addosso ai Francesi, sorprendendoli in marcia lungo il mare, giù in quel di Voltri! Ma dunque Cervoni, quel maledetto generale còrso che si era avanzato sin lì, appunto il giorno avanti con tremila uomini, non era che uno scorridore? Dunque i Genovesi mandandogli a dire che i Francesi miravano a girar la sua sinistra, per guadagnar la Bocchetta, lo avevano ingannato? Certo il nemico gli si appuntava contro l'ala destra, là dove questa si annodava con la sinistra dei Piemontesi! Piantò Nelson, col quale era disceso in Voltri a concertare chi sa che operazioni; mandò gente verso questi monti, lungo e disperato cammino; egli stesso si mise in marcia per venire quassù. Povero Argentau, povero Roccavina, messi qui con poca gente, che sarebbe avvenuto di loro? E lui, addio la sua fama guadagnata nella guerra dei sette anni!
Quel giorno che fu l'undecimo di aprile del 1796 Argentau, con dodicimila uomini, era venuto incontro ai Francesi, già stabiliti sulla piccola catena d'alture che sorgono, come gobbe, su questo dosso dell'Appennino. E aveva trovato che Roccavina (quello forse che lasciò il suo nome a un reggimento Croato, sciabolato da Genova Cavalleria, a Governolo, nel quarantotto), arrivato all'alba da Dego con duemila e cinquecento soldati, si era impadronito del colle delle Traversine. Allora egli diè dentro assalendo quello di Castellazzo, e quasi senza contrasto lo prese. I Francesi parevano agevoli quel giorno; due dei loro ridotti erano superati; rimaneva il terzo; questo di Monte Legino, a sbarrare il passo che giù per i fianchi rotti della montagna mette a Savona. Se si riesce a superare anche questo, l'ala destra dei Francesi rimarrà scoperta, e giù nella Valle del Letimbro. La Madonna della Misericordia, dal suo Santuario n'abbia pietà; se no gli Austriaci faranno un macello, che il sangue scolerà sino al mare.
Ma su Monte Legino v'era Rampon.
Chi passa giù nelle fondure del Letimbro, alzi gli occhi e saluti il profilo di questo ridotto, riconoscibile ancora da lontano: e si immagini i mille dugento soldati della ventunesima e della centodiciassettesima mezza brigata, che con i loro avanzi formarono poi la trentaduesima, nelle guerre napoleoniche chiamata la brava. So d'una vecchia incisione in legno che rappresenta il fatto, visto appunto dal passo del Letimbro, dove ora è il gran ponte della strada ferrata. Un gruppo dei cavalieri freddolosi con i mantelli indosso stanno lì sulla via che mena all'altura, e guardano questa cima coronata di fumo. Nel fumo v'è un movimento, quasi un brulichio. È rozza l'incisione, ma deve essere stata fatta su uno schizzo dal vero. Ai piedi, a guisa di medaglia, v'è il ritratto di Rampon.
All'aspetto pare che fosse un uomo austero. Aveva gli occhi grandissimi, il naso a filo, carnoso, il mento sporto, i capelli acconciati sulla fronte grande. Vestito dei panni d'allora, con quel soprabitone giacobino dalle mostreggiature larghe, dal bavero che dava su alla nuca, dalle falde che battevano sotto le polpe; con quella lucerna piumata in capo, qui ritto sul culmine, circondato da quel migliaio d'uomini, vestiti e piumati come lui, dev'essere stato d'una grandezza sovrumana, quando tuonarono il giuramento di voler morir tra quei sassi, piuttosto che darsi vinti. Viva la Repubblica! urlarono in mille. Gli Austriaci, che poterono udire quel grido, nel frastuono delle fucilate, si sentirono come tirati dalla voragine della morte, e si avventarono risoluti e gravi la terza volta.
Dal petto in sù i Francesi sorgevano, ma non tiravano. Essi, non avendo più cartocci, aspettavano con le baionette incrociate. Allora gli Austriaci investirono a capo basso come tori; ma quel muro di petti non fu possibile romperlo. Ributtati, rotolarono morti feriti, fuggenti; ne furono trovati sin nel greto del Letimbro laggiù, orribile salto, quei che lo fecero in sensi.
Argentau trasse le sue genti indietro, e le postò in luogo di dove parve dire: A domani!
Rampon ebbe un po' di respiro. Chi conoscesse qui attorno il punto vero dov'egli si stese a passa la notte!
A domani, dunque. Ma l'indomani Massena, Augereau, Laharpe, arrivarono diritti come falchi, questi di fronte, quelli di fianco agli Austriaci. Laharpe, alle cinque del mattino, che d'aprile e ancor notte, assale Argentau: questi, superiore di forze, crede di potergli ruinare addosso e precipitarlo giù nei burroni. Ma Augereau e Massena lo urtano improvvisi, irresistibili, nel fianco destro e quasi nelle spalle; vuole far fronte da tutte le parti; è inutile; cominciò la rotta, divenne un eccidio. Egli e Roccavina, feriti, poterono a stento fuggire, cacciandosi per quella valle dell'Erro là, angusta, tetra, spaventosa. Dei loro soldati duemila caddero prigionieri, mille e cinquecento giacquero morti; tanti corpi, che di nati tra questi monti, non ne tornano alla terra altrettanti in tre secoli; diecimila dispersi andarono come lupi a branchi, alla ventura per le selve; un migliaio rimasti uniti si ritirarono coi Francesi alle reni, urlanti per quelle gole. Che pensiero in quell'ora, che sgomento la patria lontana!
Bisognava aver uditi i vecchi, ultimi testimoni della rotta, quando narravano queste cose nel rozzo ma pittoresco e vigoroso linguaggio di questi monti! Ora son tutti morti, e la prima Compagnia Alpina passò senza la consolazione di averne trovato uno che potesse dire d'aver veduta la gran tragedia.
Da Montenotte a Dego, si va tra faggi e castagni che, tormentati dai vènti marini, empiono le solitudini di un clamore monotono, tedioso, come di cascate d'acque molte e lontane. Si incontrano casolari ai varchi, sulle vette, in grembo ai valloncelli verdi; e che bei nomi! Quel tetto che si vede laggiù, è d'una casa di coloni chiamata «l'Amore». Date un'occhiata a sinistra. Li vedete quei massi che l'uno sopra l'altro sembrano un tumolo di chi sa qual uomo favoloso? Ebbene, là sotto v'è una spelonca dove, cara leggenda, Adelasia visse i suoi amori con Aleramo. Quella casetta laggiù in quel fondo, tra quei castagni spanti che sembrano secoli, presso quel torrentello che va via luccicando come corresse argento colato, la chiamano «l'Erede» e vi nasce la bellezza. Da generazioni, maschi e femmine, tutti statue greche in quel tugurio, in quel bosco! E suonano da tutte le parti canzoni che cercano il cuore, fanno invidiare la semplice vita di quella gente, dànno persino un senso vago dei tempi feudali. Udite?
Er fieu du re l'è 'ndà spassagèe
In s'ra riva der mar;
U n'a sentì na certa vux;
Chi a r' è sa li ca canta?
Sa li ca canta a n'è pa per vui,
R'è dona marideja.
O marideja o da maridèe
Ra veui per ra me spusa.
Anche vibra talora la nota eroica.
A ji spettruma in zima ar zuvu,
A i daruma 'r bragg du luvu!...
Per chi poi, contro chi, i versi feroci del canto che tutto insieme, nel dialetto originale, arde d'un patriottismo quasi barbaro, ma grande? Per quei monti furono sotterrati tanti Francesi!
Giù, giù, sempre per borri selvaggi, si arriva a Dego, alle strette di Dego, fatte per le stragi umane. Su quel colle di Magliani, coronato di casette esultanti nella loro povertà come anime pie, quanti Francesi e quanti Austriaci videro l'ultima luce, provarono l'ultima angoscia, rimanendo a farsi polvere nel terreno rosso, che si direbbe divenuto così dal tanto sangue bevuto!
Lassù vidi Vittorio Emanuele nel 1875, su d'un baio che per i greppi vinceva le capre. Ma non era allegro quel giorno il Re. Forse lo opprimeva il cumulo delle memorie; forse si ricordava d'un veterano di Napoleone che nel 1851, in quel luogo, gli si era fatto alla staffa per salutarlo, a dirgli, richiesto, la propria vita. E che aveva guerreggiato in Ispagna cinque anni, sotto il maresciallo Suchet; e che nel 1821 era stato portabandiera del reggimento Alessandria a Novara; e che travolto nella rotta dell'Angrogna s'era condotto, fuggendo, a piedi sino a Ponzone in quel d'Acqui, portando seco l'insegna che non aveva voluto lasciarsi levar di mano da nessuno, salvo che dal Vescovo. Chi sa cosa pensasse il Re, se gli tornava a mente quell'antico rivoluzionario, devoto a suo padre e così buon diocesano?
A Dego cominciò la fortuna di Lannes. In quell'ufficiale che conduceva così accorto ed ardito il suo battaglione contro il ridotto dei Magliani, l'occhio di Buonaparte indovinò il futuro duca di Montebello. Nel campo di Dego, la notte dopo il fatto d'armi, il giovine colonnello Muiron sognò d'aver salvata la vita al generale in capo, e di aver vista la Morte dare la posta a lui, per un'altra volta. E la morte lo colse ad Arcole pochi mesi di poi, appunto mentre egli copriva col proprio petto l'Eroe; l'Eroe che dopo tanta e sì lunga fortuna, caduto, si ricordò di lui, e voleva pigliarne il nome, per andar a vivere solitario al focolare del popolo inglese. Dolce ritorno di sentimenti umani nel cuor di quell'uomo che era parso un Dio. E a Dego, il 15 aprile, quando Wukassovich, ancora sbandato da Montenotte, arrivò tempestando sopra i Francesi sdraiati nella vittoria del giorno avanti, cadde il generale Causse menando alle difese un pugno d'audaci. Fu portato via morente. Buonaparte gli passò vicino. - «Dego è ripreso?» domandò il ferito con voce spenta. E Buonaparte: «Il ridotto sì!» - «Allora, viva la Repubblica! muoio contento!» disse Causse con le ultime forze, e spirò consolato dalla bugia generosa di Buonaparte. Bugia, perché appunto in quel momento Wukassovich si cacciava dinanzi come turbine i Francesi; e li sbaragliava se non arrivavano Victor, Masséna, Menard, Cervoni, tutti. Ond'egli, l'eroico vendicatore, dovè ritirarsi rotto, perseguitato, perdendo bagagli, armi, soldati: miracolo se potè giungere in Acqui vivo.
Quelli i gloriosi. Ma le migliaia di gregari, i morti compendiati in una cifra, tutto quello strazio di carne innominata per i cinque o sei nomi che la storia tramandò? Pensiero cupo dei soldati che camminano, collo zaino sul dorso, per le strade polverose, taciturni, lontani dalle case ove nacquero. Ma gli Alpini che passarono nella mia vallata, forse non tutti avevano il capo alle cose lugubri, né alle glorie dei guerrieri illustri rammentati ancora dai valligiani. Erano pieni d'altri affetti vivi e presenti. A ogni passo madri, sorelle e persone di più tenero desiderio, si facevano incontro alla Compagnia, cercando sotto quei cappelli delle faccie care. La gran patria è augusta e dolce al pensiero; ma il cantuccio di essa dove si nacque, il nostro cuore è tutto per esso. E più qua, più là, quei soldati erano tutti nativi di questi monti. Oh! dove ad ogni occhiata si scopre un punto conosciuto nei boschi, nei campi, nei sentieri biancheggianti traverso i fianchi d'un monte lontano; un punto da cui si rifà qualche memoria nostra, qualche nostra passione; ivi sì che da soldati si combatterebbe con animo grande, saputi vicini da chi conosce tutta la nostra vita, forse sotto gli occhi della donna amata!
Di quest'animo dovè essere il cavalier Del Carretto, quando circondato da soldati suoi paesani, quasi nel bel mezzo delle Langhe, veduto, sto per dire, da tutte le torri feudali piantate su per quelle vette lontane e vicine, possessioni antiche dalla sua gente, nel castello rovinato di Cosseria, aspettò l'assalto dei Francesi e la morte. Vi era venuto dalla valle del Tanaro, pieno di mesti presentimenti. Un giorno, mentre marciavano sotto la pioggia, un sergente molto amato da lui e campato poi vecchio sino al 1859, molle sino alla pelle, inzaccherato, stanco morto aveva osato dirgli:
«Che vita le tocca, signor cavaliere, lei che poteva starsene tranquillo nel suo palazzo di Torino, coi piedi al fuoco!».
Il cavaliere si era mosso come a una puntura e al sergente aveva intimato di tacere: ma poi battendogli sulla spalla aveva soggiunto dolcemente:
«Dimmi, tu ed io chi ci ha più roba al sole?
Oh! lei senza dubbio; io sono un poveretto.
Ebbene, avrei potuto starmene al fuoco, nel mio palazzo? Eppure là v'è mia moglie, v'è il mio figliuolo... Senti, lasciamo andare questi discorsi; e quando una palla m'avrà ammazzato, allora dirai: ecco, il cavaliere è tranquillo».
Diceva quel vecchio sergente, che il cavaliere Del Carretto era un giovane bellissimo, non molto gagliardo ma fiero, sempre taciturno e scontento forse per cose domestiche. A Cosseria fra le rovine del castello che fu dei suoi vecchi, colto da una palla nel petto, cadde nelle braccia dei suoi granatieri, molti dei quali lo avevano visto fanciullo.
Ora v'è una lapide lassù posta nel 1860, l'anno in cui tutto sentì come un grande risvegliamento. In essa è scritto di lui, di Bannel, di Quesnel generali francesi, morti nemici e mescolati ora nella pace soave di quell'altura, dove io da giovinetto andava da lungi a leggere la Capanna dello Zio Tom, piangendo a quel grido d'angoscia che ci veniva dalla grande America, e ignorando il gran cuore che si era spento lassù mezzo secolo prima. Non sapeva che qualcuno dei teschi nascosti fra i rovi che tutte avvolgono quelle mura cadute, poteva essere stato la testa bella, malinconica e ardita di quel cavaliere. L'antico sergente non me ne aveva parlato.
Un giorno un generale prussiano, vecchio sopra i settanta, il signor Fritz de B... fece la salita del castello di Cosseria, e la rifece poi tre o quattro volte, ostinato a capacitarsi del come i Francesi abbiano potuto assaltarlo. Aveva carte e libri tutti note nei margini; interrogò, cercò. Ma tant'è, diceva, quell'assalto come lo narrano le storie, mi pare una storia da tori furiosi. - Badi, gli fu detto poi, badi che il vero assalto deve essere stato dato da nord. Ella ha visto che da quella parte la salita è meno erta; che le mura del castello vi sono più basse; che ivi soltanto possono essere superate senza scale; e sa che Joubert fu ferito appunto mentre con sette de' suoi saliva... Ora Joubert arrivava da quella parte.
«Così dovrebbe essere, diceva il prussiano, ma la storia non lo dice.
Ma si sa che Joubert, la sera del dodici aprile, appena sceso da Montenotte, fu mandato da Buonaparte ad occupare il colle di Santa Margherita che è quello là... a nord-est del castello...».
E il prussiano a studiare.
Fosse stato ancor vivo il sergente del battaglione Del Carretto, che preziose notizie avrebbe potuto dargli! Egli raccontava che la notte dal 12 al 13 aprile, conosciuta la rotta degli Austriaci a Montenotte, un corpo staccato dall'esercito di Colli, aveva camminato nella valle della Bormida tra Millesimo e Cengio, per andarsi a congiungere con quelli verso Dego. Ma all'alba, attaccato dai Francesi a destra e a sinistra, il comandante Provera si dibattè in quella stretta, avendo la Bormida alle spalle ingrossata improvvisamente, e i monti a petto dinanzi. Rotto, non vide scampo che sopra quella vetta di Cosseria, e vi trasse quanti potè dei suoi. Fra quelle rovine si piantarono risoluti a starvi sino alla morte. Di lassù vedevano Dego difesa dagli austriaci, vedevano a destra Montezemolo dov'era Colli accampato, un triangolo di cui essi occupavano il vertice formidabile.
Quel sergente, dopo sessant'anni, vedeva ancora il parlamentario francese salito a portare l'intimazione di Buonaparte, e narrando stringeva i pugni.
Gli pareva di udir Provera rispondere modesto e sicuro, che non si sarebbe mosso, se non a patto d'esser lasciato andar libero a raggiungere l'esercito di Colli; e accertava che mentre Provera rispondeva, il cavaliere Del Carretto gli stava ai panni come per mettergli il proprio spirito in corpo.
A Buonaparte sarebbe convenuto accordarlo quell'onore dell'armi; perché trattenuto alle falde di quella bicocca, rischiava di far mancare gli aiuti a Masséna, se ne avesse avuto bisogno a Dego, dove già era alle prese. Ma no. Lo lasciò detto un prete che giovanetto l'udì presente. Ricevuta la risposta di Provera, Buonaparte esclamò in italiano «Oh:... vuol imitare Rampon? Ebbene... cannonate!» Allora dal colle che sta di faccia al castello verso ponente, il cannone cominciò a tirare; ma i piemontesi non risposero perché senza artiglierie. E senza artiglierie, senza pane, senza acqua; chiusi tra quelle mura diroccate col loro coraggio, tennero fermo sino alla sera.
Il sole cominciava a calare quando Augereau, lasciato là da Buonaparte che era corso a Dego, comandò d'assaltare il castello. Bannel, Quesnel e Joubert marciarono alla presa, su per i tre contrafforti che si annodano a quella specie di cono su cui sorge il castello e gli dànno forma di tripode. Joubert veniva dal contrafforte a nord, e a mezza via fece sosta per dare un po' d'aria ai soldati. Bannel e Quesnel, dai due altri contrafforti, videro e sostarono anch'essi. I Piemontesi, credendo che mancasse ai nemici l'ardire d'andar più sù urlarono di gioia; e cominciarono a far tombolar giù grandi massi che rovinando per i fianchi quasi a picco del colle squarciarono, scompigliarono i Francesi, n'uccisero o ferirono più d'un migliaio in un quarto d'ora. Alla tragedia si mescolò lo scherno. In faccia ai più avanzati assalitori furono lanciate le interiora d'un bove sottratte alla fame di chi le avrebbe divorate lassù. Bannel e Quesnel morirono in quel punto.
Ma Joubert che saliva per un pendio più agevole, potè arrivare sino alle mura. E già con sette de' suoi v'era sopra, quando una pietrata in faccia lo rovesciò per morto sul tiro. Allora fu una fuga giù giù sino alle più basse piaggie boscose. Su in alto esultavano i difensori nell'ultima gloria. Augereau invelenito fece asserragliare con botti, con carri, con tronchi d'alberi tutti i passi al castello; a mezzo tiro di schioppo piantò i cannoni.
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