E il giorno appresso a quello di poi fu visto da lontano un polverone segnar la marcia di molta gente che veniva rimontando la valle. Era di domenica. I contadini uscivano dalle anguste convalli, scendevano dai colli, sbucavano di tra le salciaie della Bormida, e guardavano quella gente che andava come se ci fosse qualcuno alla testa che la guidasse. Non erano soldati, benché tra loro si vedessero degli uomini in divisa militare, ma senz'armi; vestivano quasi tutti da signori e signorili erano d'aspetto.
Bisogna dire che il cavaliere Stellani avesse data la voce agli amici suoi, perché quando quella gente fu al lungo ponte che mette nel borgo, v'eran ad accoglierla molti che la condussero in un giardino dove era stato apparecchiato da rifocillarla. Ma non grida, non atti: silenzio e rispetto. La folla da fuori stava anch'essa muta. Finito quel ristoro, quei profughi, che erano forse un cinquecento, quasi tutti studenti dell'Università di Torino, furono anche provveduti di biancheria, di calzatura, di denaro chi non ne avesse, e si rimisero in marcia, accompagnati dai men paurosi, perché paura avevano un po' tutti. Già si era tornato a parlare di Carlo Felice che da Modena aveva gridato la sua collera; e c'erano i compaesani che notavano, e già ridevano alle spalle dei costipati. Anche il volgo si dilettava di questa stolta ingiuria di nome.
I profughi non dovevano essere lontani quattro miglia, qualcuno più stanco era ancora forse nel territorio vicino, in quei tempi come se fosse tuttavia l'età dei castelli, per via di confini ben segnati gelosamente diviso dai territori degli altri Comuni. Nelle case del borgo si parlava di loro o in bene o in male; secondo i partiti, si sperava o si temeva che nel primo paese ove sarebbero passati la gente li avrebbe trattati alla peggio, per solo gusto maligno di contrasto. Intanto era venuta l'ora dei vespri; le vie erano quasi deserte, la chiesa era stipata di gente. I pochi che stavano fuori del borgo a spasso, videro improvvisamente comparire un soldato a cavallo, passar il ponte come un razzo, infilar la via principale, trascorrerla fino all'altro capo facendo sprizzar fuoco dalle selci, riuscire, ripigliar il ponte e sparire. E allora giunsero ansanti da quella parte alcuni contadini a dare una gran notizia che fu portata subito fino in chiesa. Erano lì gli alemanni? Il parroco che stava sul pulpito a predicare discese subito: il sindaco, i consiglieri che sedevano nel loro banco si levarono, corsero a lui, e in presenza di tutto il popolo in piedi e ondeggiante, si misero a parlare ad alta voce, come se fossero in piazza. Gli alemanni erano lì! Che fare? Andare ad incontrarli? Chi sa che cosa poteva avvenire!
Il sindaco voleva andar lui. Il parroco no, non voleva lasciarlo andare; era troppo focoso, non avrebbe saputo parlare. Meglio il tale, meglio voi, meglio io; insomma andiamo tutti noi, disse alla fine il parroco, ma il popolo stia in chiesa a pregare. Quando saremo davanti al comandante alemanno, parlerò io; il sindaco promette di star zitto. Vedremo, mormorò il sindaco.
E andarono tutti, disputando, gesticolando, fin litigando; ma come furono a uno svolto della via e videro i soldati, si raggrupparono e andarono oltre in silenzio. Solo il sindaco era un po' baldanzoso.
Vicino al borgo un mezzo miglio, in un gran prato che verzicando già rallegrava l'occhio ai cavalli più ancora che lo spirito agli uomini, stava uno squadrone d'usseri ungheresi appiedati. Gli ufficiali raccolti intorno a un maggiore, guardavano dove egli additava su certi monti che chiudevano una convalle certo ciuffo di case e una gran torre quadrata, alta, come se fosse stata fabbricata per un gran dominio. Quando il parroco e i quindici o venti che erano con lui, furono condotti da un sergente a quel comandante, il sindaco fece atto di volersi lanciare a parlar il primo. Ma il parroco, a capo scoperto, coprendosi quasi la faccia e il petto col gran cappello, cominciò a dir in latino parole d'ossequio al maggiore e a' suoi ufficiali, dando loro di benvenuti a nome dei suoi parrocchiani. Il discorso s'avviava bene, il comandante faceva buon viso; non pareva nemico; ma il sindaco bolliva, voleva dire, scoppiò: e invece di chi sa che cos'altro ruminato per via gli uscì gridato: Nos non timemus vos! Tutti tremarono, il parroco sospirò, ma niun male.
Ai vecchi che raccontavano la scena ancora nel quarantotto, pareva d'udir presente lo schianto di risa degli ungheresi, e dicevano che bisognava aver visto come il parroco aveva fissato gli occhi negli occhi del maggiore, per formarsi un'idea di quanto era rimasto mortificato. Ma ricordavano con piacere che alle offerte d'ogni servizio per lui e per i suoi fattegli dal parroco, quell'ufficiale aveva risposto che conosceva già la bontà degli abitanti, e che s'era messo a dire i nomi di certi monti là intorno, e di quella gran torre e di quel ciuffo di case, che aveva guardato tanto: Carretto, Carretto. Qual meraviglia! Ma egli aveva levato a tutti la curiosità dichiarando che da giovanissimo era stato da quelle parti coi russi a inseguir i francesi rotti nella battaglia di Novi del Novantanove.
Inseguire! Allora pure, del Ventuno, quell'ungherese inseguiva. Ma pareva che facesse di malavoglia, perché domandò quasi sbadatamente se i fuggitivi avevano continuato a marciare, o erano ancora nel borgo. Agiva così per sentimento suo proprio, o aveva ricevuto ordine di tener dietro lentamente a chi se ne andava? Se mai, da chi quell'ordine poteva essergli stato dato? Quei vecchi, negli ardori del quarantotto per Carlo Alberto, volevano fin credere e far credere che ciò fosse stato per preghiere di lui, Principe di Carignano, punito ma esaudito dal comandante supremo austriaco Bubna entrato in Piemonte. Forse ponevano così senza saperlo alla storia un quesito che non sarà stato posto da altri mai, e che forse non sarebbe possibile chiarire se si ponesse. Ma quando si pensa che tutti i rivoluzionari del Ventuno poterono andare in salvo, come se qualcuno avesse proprio prescritto di darne loro il tempo, piacerebbe poter credere e provare che anche quel maggiore ungherese avesse eseguito un ordine ricevuto.
Non ricordo bene ciò che nel Quarantotto su quello squadrone si narrava d'altro, se quegli ungheresi siano poi stati nel borgo a riposare o se abbiano proseguito quella domenica a marciare: rammento però d'aver udito dire che andarono fino al colle di Cadibona, da dove si scopre il mare, ma non se, per tornarsene in Lombardia, fossero ripassati nella valle stessa percorsa a venire.
Cosa assai più cara a ricordarsi l'aver conosciuto vivo fino al 1866 uno che nell'anno della rivoluzione piemontese, allora già così lontana, aveva fatto qualche cosa per cui, vecchissimo, era ancora stimato l'uomo più valoroso della valle. Aveva fatto le guerre di Spagna sotto il maresciallo Suchet, n'era tornato con una bella cicatrice di sciabolata in fronte e con una nel petto passato fuor fuori da una lanciata spagnuola. Narrava d'essere guarito sulla nuda terra, in un solco dell'accampamento. Caduto Napoleone, egli, restituito al Re di Sardegna era entrato sergente nel reggimento di fanteria Alessandria, e, scoppiata la rivoluzione del Ventuno, promosso ufficiale, gli avevano dato a portare la bandiera del reggimento. Ed egli l'aveva custodita dopo la rotta dell'Agogna marciando co' suoi, poi appresso da solo fino in Acqui e su fino al borgo di Ponzone sui colli. Voleva tenerla per consegnarla al suo colonnello. Dove mai era andato a cercarlo, dove aveva creduto di trovarlo? Andarono invece i carabinieri a cercar lui lassù. Ma egli si chiuse nel campanile della chiesa parrocchiale, e da quell'altezza udì intimazioni e minaccie senza volersi arrendere. Alla fine, per fame, offerse di consegnar la bandiera al vescovo d'Acqui. Era passata nella mente semplice di quel fiero uomo qualche ricordanza di fanciullezza a intenerirgli il cuore? Fu fatto così come egli volle; e la bandiera del reggimento Alessandria, già condannato alla dissoluzione e a perdere per obbrobrio il nome, passò da quelle di lui nelle mani del vescovo. Di casato quel forte era Cirio, ma perché parlava sempre del suo colonnello nelle guerre di Spagna, Olini, tutti lo chiamavano Lino, anche quando passato il Consiglio di Guerra e assolto, ma licenziato dall'esercito, s'era adattato a divenir guardaboschi del suo Comune, e a vivere come visse per ventisette anni con tre quarti di lira al giorno in un tugurio, nella foresta. E guai a chi avesse osato, lui presente, dir male del Principe di Carignano! Dolce è poi ricordare la festa che gli fu fatta da tutto il borgo nel quarantotto, quando gli fu ridato il suo grado ed ebbe la pensione da veterano della Casa Real d'Asti. Egli chiese invece d'esser mandato alla guerra. Non fu accettato. Troppo vecchio era; ma quanti che furono prodi in quell'anno a Goito e poi in Crimea e poi anche a San Martino, avranno dovuto all'esempio di quel vecchio l'ispirazione?
Valle destinata a piccole cose di pace e a grandi mestizie quella della Bormida! Del Ventuno vi passarono Santarosa, i suoi seguaci profughi, gli ungheresi che li lasciarono andare al destino cui s'erano votati: del Quarantanove vi passò Carlo Alberto, anch'egli incamminato all'esilio. Non propriamente in una cronaca, ma in un libro fatto di ricordi d'un ragazzo che maturo li idealizzò, se ne legge così:
23 marzo 1849
«Quel po' di neve è venuta come per celia e sparì. Se ne vede appena qualche chiazza sulle vette, dove già il verde si move. Ma la gente ha detto: “Poveri nostri soldati, con questi tempi alla guerra!”. Dunque c'è di nuovo la guerra? Delle donne che stanno filando accidiose al sole, dicevano che quest'anno le rondini tardano a tornare e che è segno di sventura.
Sventura siete voi! - gridò il capitano Lino, - voi, sciocche e marcie di superstizione!».
26 marzo 1849
«Stamattina, mio padre mi condusse con sé a spasso, come suol fare quand'è di cattivo umore. Io dicevo tra me: Che cosa avrà? Volgevamo verso il ponte, senza parlare. Dinanzi a noi una trentina di passi andava il capitano Lino, e verso di lui e noi veniva di trotto una carrozza. Quando passò vicino al capitano, questi tremò tutto, si piantò con le mani al berretto e gridò: Carlo Alberto! Mio padre corse per reggerlo; credevamo che cadesse svenuto. Intanto vidi in fondo a quella carrozza un mantello grigio, due grandi mustacchi bianchi, due occhi che mi guardarono di sotto all'ala di un berretto listato d'argento passar via, sparire. Un gran dolore mi pigliò; mi parve che la via, il ponte e tutto intorno, lontano, provasse un gran patimento, dietro quella carrozza che menava via il Re.
È proprio Carlo Alberto! - disse mio padre al capitano Lino.
Carlo Alberto! - rispose il vecchio come un'eco. - Certo è avvenuta qualche grande sventura.
Questa sera mio padre non ha cenato, e non ha cenato mia madre. Noi ragazzi abbiamo mangiucchiato. Quando la servente è venuta coi lumi, dando la buona sera, il babbo le ha detto: Portateli via. Così siamo rimasti al buio, sicché ognuno se n'è poi andato a letto, senza dar la buona notte agli altri, tutti malinconici come la sera dei morti».
Due ciuffi di case sulle due rive della Bormida, un ponte che li congiunge, colli che si profilano chiari sullo sfondo cupo dei monti, ai quali fa da nodo il Settepani, pioppetti lungo il fiume, castagneti a piagge nei colli, macchie d'abeti in quei monti lassù, e lì, fuori un passo dalla borgata, il convento Calasanziano, che le genti delle terre intorno chiamano senz'altro: Collegio di Carcare, dal nome della stessa borgata; dolce visione il tutto insieme, per chi vi fu e vi amò qualcuno o qualcosa.
Verso il 1846, in quel Collegio, c'era un gruppo di Padri di mezza età, alcuni dei quali, se fossero rimasti da giovani nel così detto secolo, si sarebbero incontrati con Mazzini o in qualche suo seguace che li avrebbe fatti della Giovane Italia: un'altra parte, i più, erano proprio nati per il convento, ed erano stati in quello e vi stavano tranquilli, insegnando chi il mezzano e anche l'alto sapere, chi perpetuamente a leggere e a scrivere, tutti senza cure d'altro, sereni, benveduti dalla gente del borgo, dove spiravano un'aria amorevole di: lascia andare, che produceva pace. Tra questi aveva grande autorità un genovese di nobilissimo aspetto. Pareva uno dei vecchi marchesi della Superba, e leggeva signorilmente filosofia in un'aula, nella cui vòlta era dipinta la sua scienza in forma di donna con intorno il motto: Povera e nuda vai. Egli seguiva un suo autore ancora sconosciuto agli altri Padri, anzi quasi quasi lo recitava, e però delle sue lezioni udiva parlare nel Collegio come di quelle d'un gran novatore. Ma lasciava dire. E quando alla fine fu saputo che non aveva mai fatto che ripetere il Galluppi, disse sul serio che era ben lieto d'aver fatto conoscere in Piemonte un napolitano. Salvo la signorilità ed il gran decoro, viveva per la disciplina un po' da Folengo e un po' da Rabelais, perché proprio, d'autorità e di santa obbedienza ne riconosceva solo tanto quanto non facesse pericolare la sua salute.
Non lui dunque dava il tono al Collegio. Di questo era anima un Padre Canata da Lerici; poeta focoso in tutto, fin nel far penitenza; uomo da dipinger con la spada in pugno come San Paolo. Quello poi sì! non solo sarebbe divenuto della Giovane Italia, ma se fosse rimasto nel mondo, fra il 1830 e il 1848, avrebbe trovata la via di andar a morire in qualcuna delle sfide di pochi al potere onnipotente, qua o là dove che gli fosse capitato di vedere un po' di tricolore. Nel 1846, all'avvento di Pio IX, salì sulle più alte cime dell'ideale a cantar l'inno alla vita, alla patria, alla fede; romantico nudrito di classicismo, svegliò gli alunni suoi ad amare la gran cosa vietata: l'Italia. Allora nella sua scuola suonarono temi che facevano andar in visibilio i giovanetti, solo a sentirli enunciare. Onde gli spiriti si inebriavano di idealità nuove, beati di cantare chi i Treni della nuova Gerusalemme, intendendo dell'Italia, perché avevano letto Geremia; chi l'Arpa trobadorica, per aver udito parlare dei Provenzali; chi Legnano, chi i Capitani di ventura, chi Ferruccio. Egli poi leggeva nella scuola pagine della Battaglia di Benevento e dell'Assedio di Firenze, lettere dell'Ortis, passi del Colletta; né il Rettore del Collegio glielo vietava. Anzi, questi, come gli altri Rettori degli Scolopi di Genova, di Savona, d'Ovada, di Finale, metteva a nuovo qualcosa anch'egli nella giovinezza dei suoi convittori; dava il bando all'abito a coda, all'alta cravatta, alla feluca, e vi sostituiva la divisa dei bersaglieri, e il cappello piumato, nero e azzurro i colori. Da tutto ciò una bell'aria di rinascita che spirava da tutto, e chi aveva lasciato pensare o pensato che gli Scolopi fossero stati sempre un po' in guerra contro i Gesuiti, poteva dire che avevano vinto o stavano per vincere. Il Rettore aveva fin fatto ripulire e dai corridoi meno visitati portar bene in vista il ritratto d'uno, ch'era stato convittore e principe dell'Accademia venti anni avanti e che adesso si avviava a divenire un gran tribuno a Casale, a Torino. E i convittori passavano con rispetto dinanzi al forte faccione dipinto di Filippo Mellana, che pareva uscire da una capigliatura soffocante per guardar loro e tirare il fiato perché la gioventù si destava.
Stonava un poco in quel concerto d'anime un padre Serio spagnuolo, venuto lì come uno della gran milizia calasanziana cui fosse stata mutata sede: ma in verità egli era profugo dalla sua patria, scampato in Madrid da un assalto del popolo al suo convento, e uscito dicevasi da quella città nascosto in una carrata di fieno. Nel Collegio faceva da ministro. Olivastro nel viso, ossuto, segaligno, feriva gli occhi a chi lo guardava nei suoi, e schiaffeggiava da cannoniere. I convittori lo temevano, ma i padri non gli volevano male. In fin dei conti era della patria del loro fondatore, del quale non si erano mai gloriati tanto come in quei giorni, che potevano dire aver egli, due secoli avanti, prescritto che tutti nell'ordine parlassero italiano, e si accogliessero a scuola anche gli ebrei. Egli non aveva aspettato che li liberassero i Re coi loro Statuti.
Quando scoppiò la guerra del 1848, il Collegio fu un faro per tutte le Langhe. Non v'era notizia che non aggiungesse luce là dentro agli spiriti. Né vi cessarono gli ardori neppure quando Pio IX richiamò l'esercito dalla guerra nella valle del Po. Perché Durando, che era di Mondovì, là presso, e ben noto a qualcuno dei Padri, s'era gingillato tanto a passare il gran fiume; perché non aveva fatto presto a dar dentro negli austriaci, a vincerli in qualche grossa battaglia, che il Papa ne avrebbe avuto piacere? Dicevano così i più ingenui; ma il professore di filosofia, quello galluppiano, bisbigliava che forse a udir troppi canti per Carlo Alberto il Papa si era seccato, e che doveva essersi doluto assai d'aver letto il Primato di Vincenzo Gioberti, e di avervi creduto.
Poi dopo lievi tripudi per Goito, per Pastrengo, terre lontane che il pensiero fingeva già lì appena oltre i colli, per farne una cosa sola col Piemonte, vennero le notizie amare delle sconfitte e gli sgomenti. Triste fu l'autunno del 1848, triste l'inverno appresso. Sopravvenute le notizie di Roma e della fuga di Pio IX, nel Convento entrò la malinconia. Il professore galuppiano se la prendeva apertamente, ma chetamente, col Primato: il Serio spagnuolo pareva tener in tasca un volume di sue profezie avverate o da avverarsi; il padre Canata divenne pensoso e taciturno. Dové sentire che presto l'anima sua sarebbe stata presa tra due vènti contrari. A chi avrebbe augurato di cuore la vittoria? Tremava di poter perdere per forza, un qualche giorno, la sua sincerità. Tuttavia quando fu saputo che a Novara l'esercito piemontese era stato sconfitto, egli discese per fare scuola. Entrò che pareva andasse all'altare per dirsi da sé la messa da morte; e quando fu sulla cattedra agli alunni rimasti con l'anima sospesa a guardarlo, disse: «Figlioli, i nostri soldati furono vinti, ma Dio non abbandonerà l'Italia». E cadde svenuto.
Due giorni appresso il Collegio fu tutto sossopra. Vi era giunta notizia della rivolta di Genova che non voleva più stare unita al Piemonte, perché questo era stato vinto a Novara, o che se unita voleva mettersi alla testa dello Stato lei, per continuare la guerra. Voci confuse, oscure, che misero in subbuglio i convittori liguri e monferrini, gli uni contro gli altri. Il padre Canata vegliava e pregava pace. Ma che dolore il giorno in cui per la borgata passò uno squadrone di Aosta cavalleria, che marciava al Colle di Cadibona per andare all'assedio di Genova! Qualcuno aveva udito quei soldati a dire che avrebbero fatto in Genova la Pasqua, ma udito a dirlo con certe parole feroci che adesso non si possono più ripetere. E perciò collere nuove nel Collegio tra quei convittori, e pericoli di vederli venire alle mani. Il giorno appresso, il padre Canata salì in cattedra. «Aprite Dante, Purgatorio, Canto sesto!». Disse così e si mise a leggere. Chi di quei giovinetti vide poi, udì poi più Sordello come ascoltando quella lettura, e la musica tempestosa dell'invettiva all'Italia? E fu pace. Di là a dieci anni, molti di quei genovesi e monferrini fattisi soldati volontari per le guerre del 1859 e del 1860, ne parlavano ancora esaltandosi, e ricordando il gran Maestro, si confidavano di sentire dentro d'essersi mossi a servire la patria anche per merito di lui.
Insomma allora il padre Canata aveva smorzate le ire. Gli animi di quei giovinetti non si erano più infiammati d'odio, neppur quando si diceva nel Collegio che dalle cime di Montenotte si udivano le cannonate dei piemontesi contro Genova; né se gli esageratori voluttuosi del male soggiungevano che anzi di lassù si vedevano sin le bombe nell'aria e che la gran città era già mezza in rovine. Poi silenzio e per parecchi giorni più nulla. Gli spargitori e i cercatori di notizie terribili tacquero. Soltanto quando passarono i bersaglieri che tornavano da Genova vinta, nei borghi di qua dell'Appennino, le donnicciole sussurravano che quei soldati dovevano avere gli zaini pieni di gioielli, di mani tagliate e fin d'orecchi strappati in fretta, con gli anelli ancora alle dita e coi pendenti ancora appiccati: scellerate menzogne, messe da persone tristi e matte nelle loro povere teste. Ma furono fatte star zitte dal buon senso.
A poco a poco le male voci si spensero, e rimase nel Collegio di Carcare che i convittori parlavano del generale Lamarmora come d'un drago e i piemontesi come d'un padre.
Queste cose imparavano i giovanetti che entravano convittori in quel Collegio dopo il 1850.
E un giorno d'estate del 1851, furono visti nel refettorio del Convitto alcuni grandi ufficiali dell'esercito alla mensa dei Padri. Prima del desinare, i convittori grandi avevano osato avvicinarsi a qualcuno di quegli ufficiali, nei corridoi dove andavano curiosando e fermandosi a questo o a quello dei ritratti di principi delle Accademie tenute negli anni addietro. E avevano saputo che erano venuti da Torino a visitare e a studiare i luoghi di Montenotte e di Dego, perché nel veniente settembre vi dovevano condurre molti reggimenti a fingervi le battaglie di Napoleone. Vi sarebbe venuto il Re in persona. Il Re? Non se ne parlava ancora bene, vagava ancora qualche accusa. Come si era diportato a Novara? Il suo nome fu oggetto di questioni tra quei ragazzi, le voci dei quali erano echi di cose udite nelle loro famiglie. Alcuni dicevano che Vittorio Emanuele non sapeva far altro che andare a caccia. E così nelle camerate non si parlò d'altro per settimane, finché capitò nel borgo e nel Collegio il Duca di Genova, fratello del Re. Andava anch'egli a veder Montenotte. Ma quello sì che era un principe! Si sapeva che a Novara aveva combattuto da disperato, e che verso la sera di quella amara giornata s'era imbattuto in un cannoniere che, morti gli altri serventi del suo cannone, si ingegnava a sparare ancora. «Che cosa fai?» gli aveva detto il Duca. E il soldato a lui: «Altezza, mi hanno insegnato che il cannoniere non deve abbandonare il suo pezzo fino alla morte, ed io aspetto». «Bravo!» aveva gridato il Duca, e aveva anche ordinato che si pigliasse il nome del cannoniere, il quale era appunto d'un casale di quelle parti. Certo il Duca lo avrebbe fatto cercare. Tutte quelle storie mettevano fuoco ai cuori. Fossero venuti presto gli esami, presto fossero passate le vacanze; se i mesi fossero stati cose, quei ragazzi li avrebbero dati via per nulla, purché venisse il settembre.
Bella sveglia di spiriti fu l'apparizione dei reggimenti che per le valli del Monferrato e delle Langhe e dai presidi della Liguria si avviarono a Montenotte! Erano ancora formati massime di soldati che avevano vinto a Goito e perduto a Novara, ma rifatti d'animo, disciplinati e baliosi: belle fanterie rosse, gialle, bianche, bei bersaglieri e cannonieri poi che parevano di bronzo come i loro pezzi. Bocche da fuoco, sentivano dire i giovani invece che cannoni, e il nome pareva più eroico e da poesia e da battaglia. E scappavano da casa per andar dietro ai soldati, per vederli accamparsi, per trattenersi a parlar con loro.
E venne il gran giorno aspettato.
Sulle alture di Montenotte non ebbero certo testimoni gli austriaci e i francesi l'11 e 12 aprile 1796, quando se le diedero per davvero. «C'è mezza Genova, ci sono mezze le Langhe!» esclamavano certi signori, quel dì del settembre 1851, guardando largo da un cocuzzolo, la innumerevole moltitudine che brulicava lassù dappertutto. Erano parole, ma insomma ci pareva mezzo mondo. E vi furono dei fortunati che s'imbatterono a udire dei montanari di quei luoghi, vecchi di settantacinque o ottant'anni, i quali avevano fatto da guida per forza a francesi o ad austriaci della battaglia, e sapevano ancora dire Rampon, Laharpe, Argenteau, Beaulieu, storpiando i nomi che era una grazia di bimbi. Ora parevano dar poca importanza ai piemontesi che facevano per gioco; criticavano i generali che, secondo loro, non sapevano far nulla. Quelli dei loro tempi sì che erano generali! Ah quei francesi! Naturale. Quei vecchi, per tutta la loro gioventù, non avevano udito dir altro che guerra, Francia, vittoria, e vi si erano avvezzati come a una specie di religione. Così avevano sempre tenute per cose da rispettare fin le pietre dei ridotti fatti dai francesi per quelle vette. Chi non aveva ricollocata a posto qualcuna di quelle pietre, se passando l'aveva vista giù, rotolata dal muricciolo a secco, dove la mano d'un granatiere di Rampon l'aveva messa?
Ma la finzione piemontese era venuta benissimo. L'esercito di Novara era degno dei luoghi, dove lo avevano condotto a dar la prima prova del come era stato rifatto, fatiche, privazioni, disciplina, tutto; condurlo su quei monti nella parte del regno più lontana del confine austriaco, ma col pensiero alla bella pianura, alla sponda del Ticino, dove il cuore non poteva stare che non passasse di là... L'altra riva, che sospirata campagna! Ma per quando? E tra i reggimenti che venivano via o sparivano sulle gole quali da vinti, quali da vincitori, si udivano dei signori che non parlavano né piemontese né genovese. «Sono lombardi, sono veneziani» diceva la gente che ne sapeva un po' di più, «sono toscani, sono romani». Oh, quanti paesi d'Italia!
E la finzione di guerra non era finita. Due giorni appresso, tutto l'esercito era a Dego, a quella stretta di Dego che pare fatta perché gli uomini la trovino e vi si incontrino a farvi le loro stragi. E chi non aveva potuto vedere Vittorio Emanuele in Montenotte, lo vide là su certo poggio, dove la tradizione ancor fresca diceva che si fosse fermato pur Buonaparte. Stava il Re non per darsi dell'aria, ma pensoso, a guardare il suo esercito simulare gli assalti e le difese, onde potersi fidare d'adoperarlo sul serio quando fosse tempo. Era allora tutto biondo, giusto di forme, d'occhi brillanti, quasi bello. Il suo baio gli si muoveva sotto come se si sentisse d'aver l'animo da lui. Cavalcava grave al suo lato sinistro il generale Lamarmora, di cui le donne e i ragazzi dicevano che era ben brutto. Ma quella faccia asciutta, quasi smunta, dava l'idea d'un uomo che lavorasse giorno e notte pel Re, a fargli spendere in armi e soldati tutto il danaro che il ministro Cavaoro aveva cominciato a spremere dalla povera gente. Cavour, Cavaoro! Giocavano così sul nome del ministro non solo gli sciocchi, e chiamavano lui anche impostore perché metteva le imposte. Ma insomma voleva così il Governo del Re; bisognava rispettare, ubbidire e pagare; disciplina bonaria da forti.
Quando nel Collegio di Carcare fu tornata la scolaresca pel nuovo anno, il padre Canata diede subito ai retorici per tema: «La difesa di Cosseria». E disse ai ragazzi: «Tenete bene a mente che fu fatta la finta di Montenotte e di Dego, dove i vinti furono gli austriaci; non quella di Cosseria, e fu bene, perché ivi i vinti furono piemontesi. Non bisogna avvezzarsi in nessun modo al sentimento di poter essere sconfitti».
Chi sa se di quegli Scolopi ce ne sieno ancora; e se ce ne sono, chi sa se possono parlare così?
Montenotte Dego e Cosseria
Queste alture di Montenotte le vidi da fanciullo, gremite di gente, un giorno già quasi di autunno, nel 1851. Tutta quella gente aveva fatto folla quassù dalla Liguria e dal Monferrato, per godersi lo spettacolo d'una battaglia. Battaglia non per davvero, s'intende, che anzi ingentilivano tutto tante, tante signore; ma era cosa guerriera veder quei nostri antichi reggimenti piemontesi, attelati sulle creste nude, lunghe file scure che parevano tormentate dal balenìo delle loro armi. Trasalivamo allo sbucare improvviso dei bersaglieri piumati, irrompenti da qualche fitto di faggi, da qualche sviluppo di rovi; l'artiglieria si arrocciava, si piantava sui culmini, e di lassù tuonava: una festa che si faceva sentir da lontano.
Quei reggimenti portavano il lutto recente di Novara, nome che allora faceva dolere il cuore sin dei bambini. Pareva non vero che avessero potuto perdere in quella giornata! Ed era qui con essi Vittorio Emanuele, giovane allora come la speranza, re da due anni: v'era il Duca di Genova, cavaliere fine e pensoso cui si leggeva l'ingegno grande in faccia; v'erano i due Lamarmora, quello che pareva masticasse di continuo la palla ricevuta in bocca sul ponte di Goito; e l'altro che lavorava a rifar l'esercito, e già quel giorno lo metteva a una prova finta. Con essi poi altri molti divenuti illustri o passati con la turba; tutti, o quasi morti oramai; e non tutti fortunati tanto da aver visto prima questo miracolo della patria rifatta.
Gioco che fra le migliaia di teste vedute qui in quel giorno, nemmeno cento pensavano più in là d'una buona guerra contro l'Austria che allora si chiamava l'eterna nemica. Oh! se si avesse potuto pigliare la rivincita di quel tetro quarantanove! E non si rifletteva che, cacciata via l'Austria, il resto sarebbe venuto quasi da sé; che il sentimento dell'unità si sarebbe svegliato pronto, generale, indomabile. Ci siamo veduti quando fu il tempo.
Veggo dei segni di tende levate di fresco, e so che la prima compagnia alpina ha passato qui la notte dal 25 al 26 luglio. Dunque su queste alture furono visti i cappelli geniali dei nostri alpini? Che bel rammentare il cinquantanove, e Torino, e i portici del Maggi, dove fra i figurini di divise proposte per i Volontari, una ve n'era che somigliava tutta a questa delle Compagnie! Non fu adottata perché allora si era massai a spendere, o perché quella foggia di cappello era troppo alla calabrese. Ma i volontari furono chiamati Cacciatori delle Alpi; ed ora in quel nome glorioso, nella memoria di quel figurino, nell'uniforme e nel nome delle compagnie, pare di veder composti certi dissidi, che i giovani d'oggi non sanno, ma ch'erano in quei tempi vivi molto e pericolosi. |
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