Capitolo 11
Il transatlantico
Il disgraziato agitava pazzamente le braccia e le gambe, emetteva grida strozzate, e di quando in quando agli orecchi dei due aeronauti giungevano degli scoppi di risa.
Non era una cosa facile tirarlo su, assieme ai trecentocinquanta metri di fune, che da soli formavano un considerevole peso: però, riposando di quando in quando, dopo una buona mezz’ora riuscirono nella faticosa impresa.
O’Donnell fu pronto ad afferrare Simone ed a trarlo nella navicella, malgrado si dibattesse come un forsennato.
Appena gettò uno sguardo su quel disgraziato delirante, un grido di dolore gli sfuggì dalle labbra. “Guardate gli effetti della paura, Mister Kelly” disse l’irlandese.
“Povero Simone! esclamò. Chissà quale terribile impressione gli ha prodotto quel malaugurato cefalopodo!”
“E non ritorneranno più neri i suoi capelli?”
“No.”
“E un caso stranissimo.”
“Ma non raro: rammento che Maria Antonietta, la disgraziata regina di Francia, divenne anch’essa canuta in una sola notte.”
'“Ma.... guardate che occhi ha questo ragazzo! Si direbbe che è impazzito!”
“Dio non lo voglia, O’Donnell. Sarebbe una disgrazia terribile che presto o tardi potrebbe causarci dei gravi imbarazzi, nella situazione in cui ci troviamo. Proviamo a dargli un calmante forse il suo accesso, dopo una dormita, passerà.”
Simone, appena giunto nella navicella, era caduto fra le braccia dell’irlandese, come se le forze gli fossero improvvisamente mancate. Dalle sue labbra però uscivano grida rauche, le sue membra tremavano, i suoi occhi manifestavano sempre un vivo terrore e di quando in quando mandavano strani lampi.
L’ingegnere gli aprì a forza i denti e gli versò in gola un calmante, mescolato ad una dose d’oppio. Allora, a poco a poco, le grida cessarono, il tremito divenne meno forte; poi chiuse gli occhi e cadde in un profondo sonno.
Fu disteso su un materasso, e per maggior precauzione i due gli imprigionarono le gambe, temendo che, in accesso di delirio, si precipitasse nell’oceano, e lo portarono a prua, per averlo sempre sotto gli occhi.
“Speriamo che si risvegli calmo” disse l'ingegnere. “Issiamo l’altro cono, O’Donnell: l’idrogeno si dilata e, se non ci innalziamo, sfuggirà per la valvola di sicurezza.”
In pochi minuti quella manovra fu eseguita, e l’aerostato, libero di quel peso, s’innalzò lentamente fino a quattrocento metri verso sud-est con una velocità di quindici miglia all’ora.
“Scendiamo ancora verso i climi caldi?” chiese O’Donnell
“Purtroppo” rispose l’ingegnere.
“Vedo però delle nubi. Che portino un cambiamento nella corrente?”
“È possibile. O’Donnell. Un uragano, lo desidererei ardentemente.”
“E non correremo pericolo?”
“Quale?”
“Un fulmine potrebbe colpirci e farci scoppiare i palloni.”
“Si evita.”
“In quale modo? Avete piantato dei parafulmini sui vostri aerostati?”
“No, ma basta innalzarsi sopra le nubi: operazione che sarebbe facilissima, con la zavorra che possediamo, ma che non è necessaria, potendo i nostri palloni in breve salire ad una grande altezza. Le nubi non si radunano che di rado oltre i mille o millecinquecento metri.”
“Allora noi assisteremmo ad una pioggia venuta dall’alto.”
“Con accompagnamento, di lampi, tuoni e scariche elettriche, ma per noi inoffensive.”
“Non mi spiacerebbe assistere ad un simile spettacolo. Accenna ad un cambiamento il barometro?”
“Fin da ieri sera, O’Donnell. Ma ritornando al mostro che per poco non ci trascinava nell’oceano, avete osservato che la nostra àncora è stata schiacciata?”
“Dal polipo gigante?”
“Senza dubbio. Doveva avere delle dimensioni enormi.”
“Doveva pesare almeno duemila chilogrammi, Mister Kelly. Io non ho mai veduto un mostro simile, né più brutto di quello. Se aveste veduto che occhi! Io credetti di venire affascinato e di cadere nella sua bocca. Che avesse scambiato la nostra àncora per qualche pesce?”
“È probabile”.
“Sono comuni quei cefalopodi?”
“Sono anzi molto rari e s’incontrano difficilmente. Si è messa in dubbio per lungo tempo la loro esistenza: ma gli scienziati hanno dovuto arrendersi, dopo che la nave a vapore Alecto ne incontrò uno mostruoso presso le Canarie, impadronendosi di un tentacolo, che si conserva ancora, credo, a Santa Croce di Teneriffa.”
“In un'opera di Sonini ho letto che taluni hanno delle dimensioni tali da abbracciare un vascello. Che sia vero?”
“Io ne dubito assai, O’Donnell, quantunque le leggende nordiche parlino di mostri immensi. Olaus Magnus, vescovo di Upsala, pretende d’aver veduto, nel XVI secolo, un mostro così enorme che era lungo un miglio e che somigliava più ad un’isola che a un pesce: un altro prelato scandinavo scrisse pure di aver scambiato un altro mostro per una roccia e di avervi innalzato sopra un altare, celebrandovi la messa, senza che quell’enorme polipo, o cetaceo che fosse, si tuffasse. Pontoppidan pretende che uno di questi mostri avesse tali dimensioni da farvi manovrare sopra nientemeno che un reggimento di cavalleria!”
“Diavolo! Era una piazza d’armi?”
“Gli scienziati hanno negato l’esistenza di quei colossali kraken : così li chiamavano i polipi nordici. Plinio, lo storico e naturalista romano, fa menzione di un mostro pescato sulle coste di Spagna ai suoi tempi e che pesava trecentocinquanta chilogrammi, con delle braccia lunghe dieci metri e la testa grossa come un barile; mentre quello che ho veduto dall’equipaggio dell’Alecto nel 1801 aveva il corpo lungo dai cinque ai sei metri e un peso di circa duemila chilogrammi.”
“Molti altri se ne sono veduti, ma di dimensioni più piccole. Nelle isole dell’Oceano Pacifico, specialmente alle Hawai, se ne pescano moltissimi che hanno il corpo lungo due metri.”
“Quello che si è aggrappato alla nostra àncora avrebbe potuto trascinarci sott’acqua?”
“Se aveva un peso di duemila chilogrammi, poteva farci scendere. Fortunatamente possediamo delle scuri, e avremmo tagliato senza fatica la fune, abbandonando l’ancora. Tò! Un vascello! Guardate là verso il nord.”
L'irlandese guardò nella direzione indicata, e là dove l'oceano pareva confondersi con l’orizzonte vide un grosso punto nero, sormontato da due pennacchi di fumo. Pareva che si dirigesse verso l’ovest.
“Sarà un transatlantico europeo che va in America” disse l’ingegnere.
“Che si diriga verso di noi?”
“È probabile. L’incontro d'un aerostato in pieno oceano è una cosa che non si è mai veduta, e l’equipaggio ci crederà forse dei disgraziati spinti qui contro la nostra volontà.”
“Mi pare, che abbia modificato la rotta, Mister Kelly” disse l’irlandese, che aveva preso un cannocchiale, puntandolo sullo steamer. “Non mi spiacerebbe andare a bere un bicchiere di Bordeaux su quel legno.”
“Disgraziatamente non possiamo discendere, O’Donnell” disse l’ingegnere. “Bisognerebbe aprire le valvole e lasciare sfuggire una certa quantità di gas; e questo è troppo prezioso per noi.”
Il transatlantico, che doveva aver scorto il vascello aereo, il quale si librava in un’atmosfera purissima, aveva modificato subito la sua rotta e si dirigeva verso gli aeronauti per portare a loro soccorso. Senza dubbio il suo equipaggio credeva che fossero stati spinti sull’oceano da qualche uragano, e accorreva per raccoglierli.
“Approfitteremo per dare notizie ai nostri amici d’America” disse l’ingegnere, strappando alcuni foglietti dal suo libricino e coprendolo di una calligrafia fitta.
Lo steamer ingrandiva a vista d’occhio. Era uno di quei superbi transatlantici che dalle coste dell’Europa si recano in America e viceversa, compiendo il viaggio in una dozzina di giorni e anche meno.
Misurava quasi cento metri, portava quattro alberi e due ciminiere, le quali vomitavano torrenti di fumo misto a scorie. Il ponte era pieno di passeggeri, i quali seguivano ansiosamente la rotta dell’aerostato. Le loro grida, data la calma che regnava sull’oceano, giungevano distintamente agli orecchi degli aeronauti.
In capo a mezz’ora lo steamer che filava verso l’ovest, fu quasi sotto al Washington trecento voci s’alzarono, gridando: “Scendete! Scendete!”
L’ingegnere si curvò sulla prua della navicella, agitando la bandiera degli Stati dell’Unione e gridando:
“Buon viaggio! Andiamo in Europa!”
Lo sentirono. Un “hurrah” immenso s’alzò dal transatlantico, e quei trecento passeggeri si misero a sventolare i fazzoletti, mentre il capitano faceva ammainare tre volte la bandiera in segno di saluto.
“Desiderate qualche soccorso?” chiese il comandante, imboccando il portavoce.
“Grazie, signore” rispose l’ingegnere: “abbiamo il necessario. Vi prego solo d’incaricarvi della mia posta.”
Aveva avvolto le lettere in un astuccio di tela e le aveva poi richiuse in una scatola di latta. Gettò il pacco, che cadde in mare a venti braccia dallo steamer.
Una scialuppa fu calata dalla gru di babordo assieme a due marinai, i quali s’impadronirono della scatola, ritornando a bordo.
“Buon viaggio!” gridarono i passeggeri affollati sulla tolda.
“Grazie, signori” rispose l’ingegnere, vivamente commosso.
Poi, mentre un nuovo e più formidabile “hurrah” salutava gli intrepidi, il transatlantico riprese la rotta, filando verso l’ovest. Per alcuni minuti si videro i passeggeri sventolare entusiasticamente i loro fazzoletti e si udirono le loro grida, poi, avendo l’aerostato ripreso la sua marcia ascensionale a causa della dilatazione dell’idrogeno, lo steamer impicciolì rapidamente, e tutte quelle voci si cambiarono in un lontano sussurrio.
“Dove andrà quello steamer?” chiese O’Donnell che non era meno commosso dell’ingegnere.
“A Boston, è probabile” rispose Kelly. “Almeno lo suppongo dalla sua direzione o dal nostro incrocio in queste latitudini.”
“Vi confesso, Mister Kelly, che ho provato una forte emozione in questo incontro. Mi è parso d’aver trovato un lembo dell’America o dell’Europa.”
“Vi credo, O’Donnell”
Intanto l’aerostato continuava a salire, riscaldandosi l’aria: superò dapprima i mille metri, poi i duemila: ma giunto ai duemila cinquanta si arrestò.
L’ingegnere che pareva in preda ad una certa agitazione e che non staccava gli occhi dal barometro, corrugò più volte la fronte e represse un sospiro. La forza ascensionale del Washington cominciava a diminuire e non raggiungeva più la grande elevazione di prima.
Il gas sfuggiva attraverso i pori della seta quantunque questa fosse stata tessuta con la massima cura. Se la grande corrente si fosse mantenuta stabile come il primo giorno, spingendoli verso l’Europa, l’ingegnere non si sarebbe inquietato, possedendo ancora quattrocento metri cubi d’idrogeno immagazzinato nei cilindri e circa settecento chilogrammi di zavorra da gettare; ma ora che l’aerostato veniva trascinato verso l’equatore, per esser poi forse respinto verso le coste americane dagli alisei, o verso l’Atlantico meridionale, la cosa era diversa, e quella grande traversata cominciava a diventare assai problematica.
Tuttavia non disperò, e nulla disse per non impressionare il suo compagno. Confidava sempre sui grandi mezzi che aveva ancora disponibili.
L’aerostato, dopo aver raggiunto i 2500 metri, si mise a filare verso sud-est con maggior velocità di prima, avendo incontrato una corrente più fresca. Ora si avanzava a 700 metri per minuto primo, avvicinandosi sempre più al tropico del Cancro.
L’oceano, dopo la scomparsa del transatlantico, era ridivenuto deserto. Perfino gli uccelli marini erano scomparsi. Però di quando in quando si vedeva apparire a fior d’acqua qualche pesce-cane, e si vide anche un pesce martello di dimensioni ragguardevoli.
Essendo il sole assai ardente, O’Donnell tese sopra il battello una tenda, per riparare anche il negro, il quale continuava a dormire profondamente.
A mezzodì l’ingegnere fece il punto e constatò che l’aerostato si trovava a 36° 7’ di lat. nord e a 32° 5’ di long. ovest.
“Dove ci troviamo?” chiese O’Donnell.
“Sui paralleli della Virginia,” rispose Kelly.
“Tanto siamo discesi?”
“Purtroppo.”
“A quale distanza dalle coste americane?”
“A 1250 miglia, in linea retta: ma dovete tener conto della curva rientrante che il continente descrive dal Capo della Nuova Scozia al Capo Hatteras.”
“E dall’Isola Brettone!''
“In linea retta distano 800 miglia.
“Abbiamo percorso un bel tratto. Mister Kelly, in poco più di due giorni.”
“Non dico di no. O’Donnell. Disgraziatamente, questa marcia così rapida non ci ha avvicinati all'Europa, anzi ci ha allontanati”
“Se l’aerostato seguisse il nostro parallelo senza deviare, dove andrebbe a terminare?”
“Nei pressi dello stretto di Gibilterra.”
“Entrerebbe allora nel Mediterraneo?”
“Sì: ma invece il vento continua a spingerci verso il sud-est e ci porterà quindi sulle coste dell’Africa.
“Ebbene, cadremo in Africa invece che in Europa. L’Atlantico l’avremo ugualmente attraversato.”
“È vero: ma possiamo cadere su di una costa deserta o in mezzo a qualche tribù di selvaggi.”
“Bella occasione per farci credere figli del cielo e farci nominare sceicchi di qualche grande tribù.”
“Zitto!”
“Che succede?”
“Simone si sveglia.”
|
|